mercoledì 28 ottobre 2015

giovedì 15 ottobre 2015

follia di Orlando

103
Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.
104
Poi dice: – Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette. –
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a se medesmo, stette
ne la speranza il mal contento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.

111
Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
et ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.
112
Fu allora per uscir del sentimento,
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ‘l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.

114
Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera, […]
121
Questa conclusion fu la secure
che ‘l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.
122
Poi ch’allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto[1];
e più duro ch’un sasso, e più pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.
[…]
124
Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albóre
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, et esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi et urli apre le porte al duolo.
125
Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ‘l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
[…]
134
In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:
135
e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.
136
I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
et io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.

proemio dell'orlando furioso

HOME PAGE    DIDATTICA SCUOLA    POESIE 200-900    COMMENTI POESIE FAMOSE    LETTERATURA

Orlando Furioso - CANTO I, 1-4
Proemio 

1
Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori,
le cortesie, l'audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l'ire e i giovenil furori
d'Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
2
Dirò d'Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d'uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m'ha fatto,
che 'l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.
3
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l'umil servo vostro.
Quel ch'io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d'opera d'inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.

p. neruda biografia


il bacio


mi piaci quando taci


favola dello scorpione

Un maestro zen vide uno scorpione annegare e decise di tirarlo fuori dall'acqua.
Quando lo fece, lo scorpione lo punse.
Per l'effetto del dolore, il padrone lasciò l'animale che di nuovo cadde nell'acqua in procinto di annegare.
Il maestro tentò di tirarlo fuori nuovamente e l'animale lo punse ancora.
Un giovane discepolo che era lì gli si avvicina e gli disse:
" mi scusi maestro, ma perché continuate??? Non capite che ogni volta che provate a tirarlo fuori dall'acqua vi punge? "
Il maestro rispose:
" la natura dello scorpione è di pungere e questo non cambierà la mia che è di aiutare."
Allora, il maestro riflette e con l'aiuto di una foglia, tirò fuori lo scorpione dell'acqua e gli salvò la vita, poi rivolgendosi al suo giovane discepolo, continuò:
" non cambiare la tua natura se qualcuno ti fa male, prendi solo delle precauzioni. Perché, gli uomini sono quasi sempre ingrati del beneficio che gli stai facendo. Ma questo non è un motivo per smettere di fare del bene, di abbandonare l'amore che vive in te.
Gli uni perseguono la felicità, gli altri lo creano.
Preoccupati più della tua coscienza che della tua reputazione.
Perché la tua coscienza è quello che sei, e la tua reputazione è ciò che gli altri pensano di te...
Quando la vita ti presenta mille ragioni per piangere, mostrale che hai mille ragioni per sorridere."
 non so di chi sia nè da dove arrivi ma condivido le riflessioni del maestro!

sabato 26 settembre 2015

PAVAROTTI SONETTO 47


Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno

Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno,
e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto,
e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto
da’ duo begli occhi che legato m’hanno;

5e benedetto il primo dolce affanno
ch’i’ebbi ad esser con Amor congiunto,
e l’arco, e le saette ond’i' fui punto,
e le piaghe che ’nfin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch’io
10chiamando il nome de mia donna ho sparte,
e i sospiri, e le lagrime, e ’l desio;

e benedette sian tutte le carte
ov’io fama l’acquisto, e ’l pensier mio,
ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’ha parte.


PARAFRASI
Sia benedetto il giorno, il mese e l'anno
Sia benedetto il giorno, il mese e l'anno,
e siano benedette le stagioni, il tempo, le ore e le strade,
e sia benedetto il bel paese, che è il luogo dove io
 fui condotto da due bei occhi che mi hanno innamorato;

e sia benedetto l'amore carnale
che conobbi quando mi innamorai,
e sia benedetto l'arco e le saette di cupido da cui fui colpito,
e le ferite d'amore che mi arrivano al cuore.

Siano benedette le tante voci che ho sparso in tutte
le direzioni chiamando il nome della mia donna,
e siano benedetti i sospiri, le lacrime e il desiderio d'amore;

e siano benedette tutti i miei scritti che mi danno
e mi daranno fama, e sia benedetto ilmio pensiero,
che è rivolto solo a lei ed a nient'altro.

In questo sonetto Petrarca racconta il luogo e il modo in cui vide per la prima volta Laura. Non è una dichiarazione d’amore: il poeta esprime infatti il suo dissidio interiore. Racconta il momento in cui fu colpito dalle frecce dell’Amore. Benedice tutti i sentimenti che lo legano alla donna concludendo che Laura è l’unica donna che può averne parte.
Nel sonetto “Benedetto sia ‘l giorno e ’l mese e l’anno”si capisce che Petrarca associa l’incontro avvenuto con Laura ad un fatto non casuale, un evento guidato da una volontà ineluttabile,associandolo ad un miracolo;il sonetto strutturato in maniera simmetrica viene rafforzato dall’enumerazione(elenco:e,e,e,….)e dalle ripetute anafore all’inizio delle quartine e terzine,le quali riprendono il termine “benedetto”. Viene ripreso lo stile stilnovistico,in quanto ogni riferimento a Laura viene commemorato e idealizzato;ritorna l’ immagine della donna,creata dal sogno,dalla fantasia e dalla memoria. Il poeta benedice anche i momenti negativi della propria esistenza, sottolineando il concetto di donna,come essere superiore rispetto all’uomo,la quale dona gentilezza d’animo. Egli non mostra rimpianti nel descrivere le sue sofferenze,anzi sembra andarne fiero,forse perché dimostrare la propria sensibilità verso Laura rendeva il suo corteggiamento più limpido,accentuando l’idea di un amore inappagato. In antitesi vi è l’altro sonetto,nel quale l’autore si accorge della propria debolezza di volontà,non riuscendo a non amare Laura,e così invoca pietà verso Dio,confessando la sua tremenda passione che divampa nel suo cuore, nel guardare con meraviglia i suoi movimenti troppo attraenti. Chiede al Signore di aiutarlo a ritornare ad un’esistenza più ligia e di sconfiggere il diavolo che tramite la sua amata lo provoca a commettere peccati. Il problema del rimorso e del pentimento sboccia in un’analisi in cui viene descritto il passato,come tempo della debolezza e dell’errore e il futuro come attesa della liberazione e del riscatto .Il sonetto viene strutturato come una preghiera a Dio, in cui l’invocazione ad Egli viene seguita dal ricordo del tempo perduto nel vaneggiamento e nella colpa;l’opera si apre e si chiude facendo riferimento a due preghiere importanti(Padre nostro e il Miserere) per rafforzare l’idea spirituale.
Ed è proprio grazie a questi due testi che riusciamo a scorgere il conflitto interiore del Petrarca,il quale si trova continuamente combattuto fra il richiamo dei beni terreni e il bisogno a condurre una vita più pura indirizzata alla salvezza interiore. Una battaglia attraverso la quale il poeta non riuscirà a trovare pace,vedendo anche nella morte solamente tempesta,al contrario di Dante che, scrivendo la Commedia, riuscirà a giungere ad una purificazione.


Figure Retoriche:

Dal 1° al 3° verso: dal primo rigo sino a giunto è enumerazione.

Al 4° verso: dato che gli occhi non possono legare vi è una metafora.

5° verso: enjambement

6° verso: personificazione di amore.

7° verso: anafora.
 8° verso: metafora, dolore d'amore come piaga.

9° verso: enjambement.

11° verso: enumerazione per polisindeto, anafora.

12° verso: enjambement.


13° verso: chiasmo fra nome e pronome

CARLO GOLDONI


1600 3


IL SEICENTO E IL BAROCCO MAPPA


ANALISI DEL TESTO NARRATIVO


ANALISI DEL TESTO POETICO


LINEA DEL TEMPO 1600


DANTE OVO VIDEO



favola
Enciclopedie on line TRECCANI

favola Breve narrazione per lo più in versi. Quando si parla di f. come genere letterario, ci si riferisce comunemente a quella i cui caratteri fondamentali furono segnati già da Esopo e universalmente diffusi da Fedro: essenziale è che essa racchiuda una verità morale o un insegnamento di saggezza pratica e che vi agiscano (a volte insieme a uomini e dei) animali o esseri inanimati, sempre però tipizzazioni e quasi stilizzazioni di virtù e di vizi umani. Da notare però che l’animale perde talvolta, e sempre più frequentemente quanto più ci si avvicina ai tempi moderni, ogni caratterizzazione psicologica peculiare, diventando semplice pretesto per introdurre la conclusione morale. È difficile distinguere la f. dall’ apologo, se non forse per il fatto che in questo possono agire anche solo uomini e il fine morale è assolutamente predominante, sì che non si ha neppure il tentativo di personalizzare i protagonisti; similmente è difficile distinguere l’apologo dalla parabola, se non per il fatto che quest’ultima parola è ormai riservata agli apologhi evangelici. Possibile invece, e necessario, distinguere la f. dalla fiaba anche se il confine tra esse è incerto, tanto che le due parole sono talvolta impropriamente usate l’una invece dell’altra.

ell’Oriente ario/">ario, specialmente in India, la f. raggiunse un alto grado di elaborazione letteraria, di cui restano documento famose raccolte come il Pañcatantra e il Hitopadeśa. Nel mondo occidentale, creatore della f. fu Esopo; ma, anche se f. si incontrano sporadicamente in vari scrittori greci e latini, colui che ne fissò il genere fu Fedro. Proprio a lui fa riferimento la copiosa tradizione favolistica medievale, anche se ciò non avviene per conoscenza diretta bensì attraverso i rifacimenti contenuti nel Romulus, titolo, forse dal nome del compilatore, di una raccolta diffusa nel 12° secolo. Alla materia di Fedro si aggiunsero però presto elementi nuovi provenienti dall’antichità e dall’Oriente e dalle nuove condizioni di vita e di cultura; centro principale di diffusione della favolistica medievale, dal 7° al 14° sec., fu la Francia del Nord. Il Medioevo presenta poi un altro tipo di f.: l’epopea animalesca, che si aggira intorno alla volpe e al lupo (ted. Reinhart e Isengrim), e il cui più cospicuo documento è il Roman de Renard, opera di vari autori della Francia settentrionale e di vari periodi che ebbe imitazioni, continuazioni, rimaneggiamenti per più secoli. Il Quattrocento amò poco la f. moralizzante, ma la rinnovò il Cinquecento e l’apprezzarono Lutero e Melantone; fra gli Italiani ricordiamo A. Firenzuola (La prima veste dei discorsi degli animali, 1541) e A.F. Doni (La moral filosophia, 1552). L’età barocca, in Italia, Spagna, Germania, trascurò la f., anche se coltivò la fiaba (e basti ricordare, in Italia, Lo cunto de li cunti del napoletano G. Basile); invece proprio allora, in Francia, J. de La Fontaine pubblicò (a partire dal 1668) le sue stupende Fables, destinate ad avere tanto influsso sulla favolistica posteriore. Il Settecento, illuministicamente didascalico, fu l’età aurea della f., la cui teoria fu allora formulata da G.E. Lessing (1759); fra gli Italiani ricordiamo A. Bertola, autore anche di un Saggio sopra le favole(1788), L. Pignotti, T. Crudeli, G.B. Roberti, L. Fiacchi (il Clasio) ecc. I romantici, che pur predilessero la fiaba, respinsero la f. come troppo didascalica e poco ingenua. Una grandiosa epopea animalesca è costituita da The jungle book di R. Kipling (1894-95), che però è altra cosa dalla f. e dalla fiaba. Alla tradizione favolistica vera e propria si riallaccia invece Trilussa, mentre G. Rodari(Favole al telefono, 1961) ha rinnovato lo spirito educatore tipico/">tipico delle f. stesse.

fiaba
Enciclopedie on line  TRECCANI
fiaba Racconto di avventure in cui domina il meraviglioso, negli episodi come nei personaggi, anonimo e popolare, di fonte etradizione orale ( favola). La f. ebbe sin dai tempi remoti vastissima diffusione nel mondo indoeuropeo, quale importante genere della narrativa orale d’intrattenimento. Dal punto di vista letterario, ebbe grande sviluppo in Oriente (Mille e una notte), mentre in Occidente fu in epoche diverse utilizzata a fini artistici da scrittori che ne fecero pretesto per elaborazioni raffinate nella loro apparente ingenuità e primitività, o, ispirandosi al modello popolare, ne composero di nuove, anche di genere teatrale: le cosiddette f. drammatiche (di cui sono un esempio nell’Inghilterra elisabettiana il Sogno di una notte di mezza estate e La tempesta di Shakespeare).
Il Romanticismo apprezzò la f. come espressione di una poesia ingenua: con Wilhelm Karl e Jabob Ludwig Karl Grimm iniziò la raccolta sistematica di f. popolari, presto diffusasi in tutta Europa. Le antologie diedero impulso agli studi sulla f., che nella ricorrenza dei motivi narrativi videro confermata l’antichità della f. stessa. Alla cosiddetta Scuola finnica di A. Aarne e S. Thompson si deve la redazione, nei primi decenni del 20° sec., di grandi indici internazionali di tipi e motivi. Per altro verso, sulla scorta delle teorie evoluzioniste, si credette che le f. recassero testimonianza di credenze, costumi e riti delle fasi storiche più arcaiche dei popoli che le narravano. In parziale sintonia con quest’ultimo approccio si pone l’opera del sovietico V. Propp, cui si deve il primo, fondamentale studio morfologico della fiaba. Gli studiosi di scuola psicanalitica (per es., B. Bettelheim), invece, individuano nei temi e nei personaggi della f. le stesse immagini simboliche che affiorano nel sogno.
In Italia, elaborazioni letterarie di materiale fiabesco si ebbero fin dal Rinascimento con G. Straparola (Le piacevoli notti, 1550-53), nell’età barocca con G. Basile (Lo cunto de li cunti, 1634-36) e negli ultimi decenni del 18° sec. con C. Gozzi, che oppose le sue f. teatrali all’asserito «tritume» realistico di C. Goldoni. Una raccolta sistematica di f. popolari iniziò alla fine del 19° sec., con netto ritardo sugli altri paesi europei, a opera di letterati e folcloristi come V. Imbriani, A. De GubernatisD. ComparettiG. Pitré, J. Visentini e altri, con criteri e metodi tra loro alquanto diversi.

Rielaborazioni delle f. nel campo della letteratura per bambini si debbono a L. Capuana (C’era una volta ..., 1882), a G. Gozzano (La principessa si sposa. Fiabe, 1917) e a I. Calvino, che tradusse dai dialetti 200 tra le f. più rappresentative del folclore italiano, pubblicandole in una raccolta (Fiabe italiane, 1956).